È una parola affilata, capace di incidere il dolore e mostrarne la ferita. Una parola che non si concede sconti e rifugge la facile consolazione. L’anima alla macchia, raccolta di poesie di Emanuela Monti (Luoghi Interiori editore, vincitore del “Premio Città di Castello” 2018), guida il lettore nei grovigli di un cuore infranto, ne scandaglia l’animo con precisione chirurgica e restituisce immagini senza sbavature, ma così perfette da impedire ogni fraintendimento.
Nelle liriche L’anima alla macchia il verso poetico diventa sonda che porta alla luce antiche ruggini, come ne L’ospizio: mite, ubbidiente/ ma dura, più di sempre/ nel silenzio caparbio/ nel rifiutarmi/ un accenno di sorriso; ma anche lama capace di tagliare eredità di ingiustizie e pregiudizi, come in Quarta generazione: tre generazioni di maschi./ Tre generazioni di male. Alla terza casca l’albero/ alla quarta si spezza la catena.
E ancora, aspra la lingua/ che mi fa eco, si legge in Magna Grecia, nella quale la parola di Monti stana quell’anima che si dà alla macchia, mentre il paesaggio sembra acuire il distacco, rendere più dolorosa la lacerazione - Deserta la spiaggia d’agosto/ Asciutta la lingua/che batte dove il dente duole – diventare specchio stesso del dolore.
Solo il verso poetico, quando si fa cadenza di ritmo, si fa suono che ritorna – Latra la tramontana (in Gennaio) -, accompagna la ricerca, o meglio la perlustrazione di un’anima “alla macchia” ed è la vera consolazione che la poetessa Monti si concede.
L’anima alla macchia trasforma il dolore in canto, è poesia che diventa musica, perché della musica conosce i ritmi e le armonie. Poesia che è capace di costruire interessanti assonanze e allitterazioni, evocare echi sonori dalla misura classica e restituire un tessuto fonico, vero balsamo che conforta.
Diverso invece è il ruolo del paesaggio, che, si legga ancora Gennaio, diventa specchio di un animo dolente: E la brina bianca/luccica nella notte/ come occhi di morti. Oppure in Aprile: la terra è desolata: / stenta, a ingoiare l’inverno.
O si legga lo splendido Il vestito corallo, nel quale l’abito si fa metafora della perdita, metamorfosi visiva della fine di un amore. Cadono le gocce di cristallo/ tracce del tuo sudore/ tracce del tuo umore. (...) Che si disperde/ gocciola via/ nel solstizio d’estate.
Caproni definiva il poeta un minatore ed è quanto si avverte nei versi di Monti, quello scavo continuo per mettere a nudo anima e cuore senza concedere sconti, ma con il coraggio della parola trovata, anzi "stanata" dalla ricerca, e perciò potente, capace di giungere al fondo della materia pulsante e altrettanto coraggiosa nel mostrarne l’assenza di senso, confermando che il fuggire dell’anima altro non sia che un prendere atto del fallimento della ragione, della sua incapacità di trovare un senso al dolore. Non viene una madre. /Non esce una preghiera. Inascoltato/ il balbettio di pianto.
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