La guerra al virus: le parole della pandemia

“Serrare i ranghi”, “guerra al coronavirus”, “medici in prima linea”. Il linguaggio dei media impiega la terminologia bellica e le sue metafore per raccontare il coronavirus e la quarantena. Ma è davvero necessario?

Chi scrive, parte da un postulato imprescindibile: il linguaggio non è neutro, esprime un rigoroso punto di vista e, come tale, crea un mondo, il mio mondo.

Per questo è necessario riflettere sulla terminologia dei media e lo faccio a partire dalle parole di padre Guido Dotti della comunità di Bose (puntata di Uomini e profeti del 11 aprile), ma anche dalle riflessioni di Annamaria Testa apparse su Internazionale del 30 marzo (Smettiamola di dire che è una guerra): il virus non è la “guerra”.

Smettiamola, dunque, di usare l’ambito semantico bellico per indicare ciò che la natura produce da sempre, virus, batteri... Perché, invece, non usare il concetto di “cura” e il suo ampio campo semantico? Cura di sé, ma anche cura, protezione dell’altro. Nella guerra ci sono nemici da uccidere, qui, nello spazio della cura, persone da salvare. Non si combatte il virus, ma si salvano le persone, non con le armi, ma con l’assistenza. La cura sollecita la solidarietà, la compassione e quella che si dice prossimità: la vicinanza verso l’altro. La guerra si nutre di nemici e di menzogne, di inganni e di spietatezza. La cura si nutre di autenticità e di generosità, di delicatezza e di vicinanza (si potrebbe dire di prossimità, per meglio definire l’ambito). E poi di tatto, di sensibilità e di empatia.

I medici, che lavorano negli ospedali, non sono in trincea, lavorano sì in condizioni estreme, rischiano la vita, ma svolgono il lavoro che hanno scelto con responsabilità e coraggio straordinari. Sono professionisti indispensabili da sempre, come altri professionisti, alla nostra società.

Io credo che eroi siano anche i ragazzi chesono rimasti a casa per settimane, quanto gli adulti che gli stanno accanto. Eroi sono tutti coloro, uso le parole di padre Dotti, che seguono con forza e coraggio la loro vocazione, la loro natura di essere umano e qui aggiungerei che seguono il cuore anche in tempi senza pandemia. Con questo, sia chiaro, al personale sanitario va la mia gratitudine per il sacrificio consumato ogni giorno (e ogni notte), ma da sempre. Ma non finiamo nelle maglie di un concetto – quello bellico - che, forse non a caso, trova larga applicazione nell’ambito economico e finanziario (e qui servirebbe un altro approfondimento). Restiamo nell'umanesimo che ha per pilastri i valori propri dell'uomo in relazione all'altro. Restiamo nell'uomo e usiamo parole che riflettano la sua humanitas autentica.

Prendiamo dunque atto della "cura" e partiamo da qui. Siamo tutti in cura, mettiamoci in cura e sfruttiamo la pausa forzata come momento per ritrovare ciò che è degno della nostra umanità. La necessità dell’aiuto, della vicinanza che tanto ci manca, della prossimità e della presenza. Della rinata comunità che sia portatrice di valori condivisi e fondamentali per la crescita e l’armonia.

 

Autore: elena pigozzi

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