Leggere Buzzati ai tempi del Covid è liberatorio, oltre che profetico. A dire il vero, Buzzati andrebbe letto in ogni contingenza storica, perché apre lo sguardo e fa il punto sulla condizione dell’uomo, sulla sua natura, sulla sua incapacità di cogliere il destino e anche la propria vocazione profonda.
La trama è semplice. Il protagonista è un tenente, Giovanni Drogo, che viene assegnato alla Fortezza Bastiani, un presidio militare ai confini di un deserto chiamato “Dei Tartari”, sedicenti nemici nella cui attesa il protagonista consuma i suoi giorni, fino all’epilogo in cui, malato, non potrà prendere parte alla battaglia attesa per una vita.
Il luogo è appena tratteggiato, si sa che è “inospitale e ostile”, situato in una zona estrema della frontiera del Nord, tra le montagne. Drogo, appena arrivato, vorrebbe andarsene subito. è incuriosito dal paesaggio e vorrebbe vederlo. Ma ogni elemento resta vago, perché riportato da diversi punti di vista: le torri bianche, un vulcano che fuma, le montagne ai lati, una specie di deserto lastricato di rocce. Il paesaggio esteriore scivola quindi su quello interiore, dall’esterno all’interno, si potrebbe dire, cioè alla coscienza del protagonista, che affiora negli occhi di Drogo: “echi profondissimi del suo animo si erano ridestati e lui non li sapeva capire”. In questa inettitudine persino a capire se stesso, il protagonista trascorre la sua vita con il continuo desiderio di fuggire e la certezza di una forza oscura – la sua inettitudine - che lo trattiene. Una indolenza, incapacità di reazione che Drogo proietta fuori di sé nell’idea di una forza oscura che gli impedisce la fuga dalla Fortezza: “una forza sconosciuta contro il suo ritorno in città forse scaturiva dalla sua stessa anima, senza che egli se ne accorgesse.”
L’attesa dell’attacco straniero, quei Tartari che danno nome alla natura desolata che circonda il presidio militare, non si compirà mai, perché il protagonista, negli anni promosso a maggiore, ormai vecchio e malato, li scorgerà giungere da lontano, ma morirà senza neppure vederli.
Metafora della malattia del secolo, la Fortezza e l’attesa dei Tartari sono le condizioni estreme in cui l’uomo post-moderno (o forse, più corretto sarebbe “post-post-moderno”) si trova a vivere. La prima è il simbolo della malattia del vivere stesso, perché estrema incapacità di affrontare la vita e i propri sogni, mentre i secondi, i Tartari, anzi la battaglia contro i Tartari, diventa il simbolo di un bisogno, di una necessità che sempre viene disattesa e perciò mai affrontata, mai superata e con la quale si alimenta la propria inazione e la propria malattia.
Come ha ben sottolineato il critico Giulio Davico Bonino, il romanzo è la grande metafora della nostra condizione: “noi non sappiamo nulla del nostro destino e tutto quello che ci fabbrichiamo intorno a questa incoscienza, inconsapevolezza degli scopi ultimi a cui la vita è destinata, è miraggio, illusione.”
Secondo Bonino, Buzzati è un moralista lombardo, che ben si inserisce ne cosiddetta linea lombarda che dal Parini e la sua fede nel Progresso e nella ragione si collega al Manzoni, che alla ragione sostituisce la Provvidenza, cioè la presenza di un Destino superiore che l’Altro (cioè Dio) assegna all’uomo e alla storia. Buzzati, invece, privo della fiducia illuministica del Parini e della fede del credente Manzoni, “è un moralista laico” per il quale “la vita è un’attesa infinita di una svolta che non accadrà mai.”
Come non avvertire in queste pagine la somiglianza di situazioni e sentimenti che abbiamo provato e proviamo difronte all’imperscrutabilità di una pandemia, di una malattia virale così perniciosa e nascosta, così intricata e subdola e soprattutto così difficile da capire, la medesima situazione di malattia perenne vissuta da Drogo nell’attesa di dimostrare il suo valore eroico attraverso lo scontro con il nemico, quegli immaginari Tartari che mai arrivano e, se arrivano, sarà quando Drogo ormai è fuori scena, perché in fin di vita e perciò senza avere avuto la possibilità di compiere quell’atto eroico che lo liberi dalla Fortezza, che liberi dalla sua prigione? E come non leggere in controluce e, proseguendo con il parallelo all’oggi, l’impossibilità di una nostra liberazione dalle paure di contagio e di rigurgito della malattia?