Definire la depressione, o il disturbo bipolare, o ancora l’anoressia, la bulimia e il binge eating disorder come malattie al pari di patologie fisiche è quanto viene sollecitato da differenti romanzi, in libreria di questi tempi, che raccontano di malattie mentali che sempre nominiamo attraverso l’uso di metafore, e che rimandano a quell’ambito sociale che ancora appartiene all’indicibile, all’off-limits, al campo del tabù.
I romanzi – Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli (Mondadori 2020), Svegliami a mezzanotte di Fuani Marino (Einaudi 2019) e Non superare le dosi consigliate di Costanza Rizzacasa D’Orsogna (Guanda 2020) – oltre ad essere delle storie “potenti” – e nelle singole analisi si comprenderà il perché -, hanno il merito di affrontare temi che evitiamo, forse perché fastidiosi, di sicuro carichi di pregiudizi difficili da eliminare. Perché non accettiamo di considerare il malato mentale in tutto simile a un soggetto che soffre di diabete o di cuore? Ancora una volta la letteratura dimostra la sua capacità di catalizzare le questioni irrisolte e sollecitarne la riflessione e la necessità di cambiare atteggiamento, scrollare via i pregiudizi e scrivere nuovi capitoli di vita sociale. Dimostra, in sostanza, di avere ancora una forza, in grado di evidenziare i problemi irrisolti e il bisogno di mutare sguardo, atteggiamento, prospettiva: in una parola, giudizio.
Nello specifico, i tre romanzi lamentano l’incapacità sociale di affrontare il problema mentale e ognuno si fa portavoce della personale esperienza dell’autore. Ciascun testo è un romanzo e non un saggio, appartiene a pieno titolo al corpus della letteratura, sdoganando un oggetto – la malattia mentale – dalla saggistica specializzata e facendone materia incandescente della propria fiction, narrativa.
Partiamo con il romanzo di Daniele Mencarelli, finalista all’ultimo premio Strega, Tutto chiede salvezza.
Il protagonista si chiama Daniele Mencarelli, come l’autore stesso, perché racconta di quando a vent’anni, dopo un episodio che per poco non costò la vita al padre, Mencarelli venne sottoposto a TSO, trattamento sanitario obbligatorio, vale a dire al ricovero forzato di sette giorni nel reparto psichiatria di Roma. A tratti preghiera straziante, a tratti carico di poesia e di amore per il prossimo, che Mencarelli incontra nel suo reparto, il romanzo è anche il grido doloroso di chi lamenta la mancanza di umanità in molto personale medico e il bisogno di non trattare il paziente come un numero, o peggio, se malato mentale, alla stregua di un essere inferiore. Tra reparti ospedalieri che spesso divengono simili a gironi infernali, Mencarelli scopre l’umanità e la solidarietà tra gli ultimi, tra i reietti, tra chi ha necessità, anzi merita salvezza in nome di una fratellanza salvifica.
“… nessuno è al corrente della mia vera natura (…) In realtà c’è qualcun altro. Sono i cinque pazzi con cui ho condiviso la stanza e questa settimana della mia vita. Con loro non ho avuto possibilità di mentire, di recitare la parte del perfetto, mi hanno accolto per quello che sono, per la mia natura così simile alla loro” Una malattia che non si permette di giudicare l’altro malato e perciò simile a te, tuo fratello. Come scrive Mencarelli: “Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare (…) I miei fratelli.”
Potente voce che racconta, con lucidità e precisione chirurgica, l’esperienza del suicidio, ma dalla parte di chi lo tenta, è Svegliami a mezzanotte di Fuani Marino. Libro autentico, forte, che vibra di pagina in pagina, reclamando il dovere della letteratura di parlare anche dell’indicibile, di dare voce a ciò che si nasconde, come il disturbo bipolare, la depressione, la malattia di chi non si adatta alle regole. E anche in questo caso, l’autrice toglie ogni velo e mette se stessa sotto i riflettori, racconta di sé conducendo il lettore al quarto piano, nell’appartamento della zia, e con lucidità si getta dal terrazzo, desiderosa a porre fine al suo malessere. Senza pietismi racconta la sua esperienza a partire da quel momento. “Così, un pomeriggio dopo il mare, finsi di voler accompagnare una delle mie molte zie, quella a cui ero più legata, nel suo appartamento al quarto piano. Una volta arrivate, proprio come avevo previsto, lei andò a farsi una doccia e io ne approfittai: mentre era chiusa in bagno a insaponarsi sono uscita sul balcone. Mi sono affacciata guardandomi intorno per poi voltarmi: il mio bacino toccava la ringhiera, credo di essermici seduta; sentivo il vuoto oltre le mie spalle. Le Birkenstock che portavo sono scivolate dalle piante dei miei piedi al pavimento […]. Allora ho preso coraggio e mi sono buttata.”
Nella prima parte del romanzo la Marino descrive passo, passo senza cedere a luoghi comuni, «A differenza di quanto si crede, non mi è sfilata davanti tutta la vita, non l’ho vista, era come se non ci fosse mai stata. C’ero solo io che precipitavo». Da qui in poi si accompagna la Marino in ospedale, nei mesi di terapia e di recupero, affiancata dall’amore del marito e dalla figlia di pochi mesi.
Una volta seguita la protagonista nella ripresa fisica, la seconda parte di Svegliami a mezzanotte procede con l’analisi del “prima”, di quando la giovane protagonista comincia a manifestare i sintomi di un disagio che si configurerà come disturbo bipolare, depressione, sofferenza profonda a cui Fuani vorrà porre fine.
Se non nominiamo le cose con il loro nome le neghiamo, ci ricorda l’autrice a ogni pagina del suo romanzo. Perché non è un saggio, sebbene ricco di informazioni e di argomenti che fanno il punto sul disturbo bipolare, la depressione e il suicidio, ma un testo che appartiene all’ambito letterario per la forza e la precisione del linguaggio, per scrittura e sistemazione della materia incandescente e non ultimo per la sua vocazione a raccontare l’indicibile e a rendere ragione persino di un suicidio. Rendere possibile accettare se stessa, si direbbe, parafrasando l’autrice, persino dopo un gesto estremo.
Altrettanto forte è il romanzo di Costanza Rizzacasa D’Orsogna, Non superare le dosi consigliate, romanzo che affronta sia il tema dei disturbi alimentari – bulimia, anoressia, binge eating disorder – ma anche la difficoltà dei rapporti familiari, il bisogno d’amore, le dipendenze sia affettive, sia di farmaci. L’autrice questa volta presta la propria esperienza alla protagonista, Matilde, e cadenza il racconto con capitoli che ricalcano i paragrafi del “bugiardino”, da cui anche il titolo provocatorio, Non superare le dosi consigliate. E che dosi sono? In primis dei lassativi, di quel Dulcolax che la madre di Matilde, bulimica e magrissima, somministra alla bambina perché possa così imparare a tenere il peso sotto controllo. Poi, di altri farmaci, ma anche di altri affetti, o meglio relazioni.
E il racconto si fa feroce, crudo, a tratti violento come le vessazioni inflitte a Matilde dai suoi fidanzati, sempre disposta a elemosinare amore, pronta a ingoiare emozioni e a trattenerle o a vomitarle, come lei stessa descrive. Il padre amato, la madre adorata, Matilde passa da magrezza a obesità in una continua fame di vita e bisogno di vivere, che sono i suoi quarant’anni. “Non c’è problema che un farmaco non curi, mamma lo dice sempre” afferma Matilde, che dà voce a uno dei disturbi più frequenti di questa nostra modernità: il binge eating disorder, il disturbo da alimentazione incontrollata, abbuffate a cui fanno seguito il vomito indotto, o l’uso smodato di lassativi, ma anche diuretici. Un uso che in alcuni paesi, come negli States, dove la protagonista si trasferisce per frequentare l’università, è la regola quotidiana, perché accessibili persino nei supermercati e quindi abusati da una popolazione di obesi.
E nella sua fame di vita, Matilde arriverà a chiudersi in casa, affrontare la vita da dietro uno schermo o al telefono, in una tana che la nasconde, come fa lei stessa, quando di nuovo è ingrassata, con se stessa, evitando persino di guardarsi allo specchio.
Storia forte, a tratti dura, come dicevo, che sollecita diversi problemi. Non ultimo quello familiare dei modelli che ci vengono imposti e che forse ci condizionano per la vita intera. “Dobbiamo uccidere il padre? – si chiede Matilde – mamma, papà, io sono tante cose per merito vostro, ma non tutte. C’è una data di scadenza entro la quale possiamo dare la colpa ai nostri genitori (…) Quando si è grandi abbastanza per prendere il volante della propria vita, la responsabilità è nostra. E io quel “grandi abbastanza” l’ho passato da un pezzo.”
Alla letteratura, e non alla pubblicistica medica specializzata, il compito di parlarne, di raccontare storie di cui poco si è letto e ancora meno si è discusso. Al “letterario” il compito di trasformare in oggetto di narrazione le famiglie del cosiddetto “male oscuro”, indicandole con termine scientifico, con rigore di nome e cognome e con la ferocia dell’analisi lucida, vale a dire il dovere di narrarle, perché la precisione linguistica e letteraria hanno la forza di toglierle dalla vaghezza e dal pregiudizio. Operazione necessaria questa, che va tenuta sotto controllo in futuro per seguirne le sue evoluzioni.