Leggere Wodehouse è fare un regalo al proprio umore, curare i sintomi della depressione, aiutare la giornata a farsi lieve. La lettura dello scrittore britannico è un antidoto contro ogni male che appesantisce il cuore, un farmaco anti-tristezza la cui posologia richiede di sfogliare, al bisogno, le esilaranti pagine dei suoi romanzi, a torto snobbati dalla critica letteraria a lui contemporanea che aveva declassato Wodehouse quale autore di “serie B”. Sorte, del resto, che accomuna gli scrittori e la letteratura umoristica di ogni epoca.
Invece, Wodehouse è da leggersi specie di questi tempi, quando l’acredine accende gli animi e le male parole, gli hacker di ogni lingua e i detrattori di ogni colore impazzano in Rete e nei social e persino negli ambienti di lavoro. Eppure, le sue storie complicatissime per situazioni e personaggi, ma semplici per ingranaggio, struttura e ritmo narrativo, sono dei classici. La leggerezza è la regola che guida la penna di Pelham Grenville Wodehouse, nome buffo, complicato, very british, molto britannico, un evergreen, per proseguire con gli anglismi.
Chi scrive forse è faziosa (anzi, dichiara di esserlo!), perché prova affetto verso quegli autori che riescono a far ridere, che regalano buon umore e in questo Wodehouse è da Nobel. Del medesimo pensiero autorevoli critici, in primis Giorgio Manganelli, che, nell’introduzione di uno dei 96 romanzi di Wodehouse, “Aria di tempesta”, sostiene che nell’accademia svedese il suo nome non è mai stato pronunciato. “Non credo che il nome un po’ ridicolo di Pelham Grenville Wodehouse sia mai entrato nelle discussioni del senato a cui spetta l’assegnazione del Nobel” scrive Manganelli, sottintendendo un certo dispiacere.
Le storie letterarie, come le antologie lo dimenticano, eppure Wodehouse ha sempre avuto un gran numero di lettori, ma non è mai stato oggetto di convegni, nonostante autori quali George Orwel, Evelyn Waugh, o Sulman Rushdie, per citarne uno a noi contemporaneo, lo abbiano amato e difeso. Manganelli azzarda anche che non è nemmeno oggetto di tesi di laurea. Eppure…
Eppure, c’è una grandezza nel suo centinaio di testi che per forma sono romanzi, ma per sostanza sono delle commedie da mettere in scena, dove tutto, come sottolinea lo stesso Manganelli, è “recitazione nel duplice senso: che è fittizio ed è come se non lo fosse” e nei quali il motore narrativo è un’architettura classica che rimanda a Terenzio, a Menandro, aggiungo a Plauto. Schemi geometrici perfetti, ingranaggi di entrata e uscita dei personaggi che seguono ritmi calibrati e sempre validi, nonostante il tempo che passa e che potrebbe rendere difficile la resa comica.
In Wodehouse, invece, vale il principio che il riso può attingere a forme archetipiche e avere una validità avulsa dall’attualità. Bergson infatti affermava che il riso scaturisce dal contrasto tra meccanismo e vita, così in Wodehouse l’irrompere in scena del rampollo smidollato del ricco Lord di campagna con il volto coperto di lucido da scarpe per fuggire, inosservato, dalla villa dello zio, è un esempio concreto delle teorie di Bergson. Si ride come nell’osservare la marionetta che incespica nella marcia. Altrettanto fresche e avulse dal contesto storico che le ha prodotte sono i contrasti tra l’alta cultura del maggiordomo Jeeves e la quasi ignoranza del suo Lord, perché creano – seppur con battute a tratti surreali, quasi astratte - la risata che libera perché rovescia i ruoli gerarchici e scardina il potere, quindi l’alto del padrone, che cade a terra, mentre il basso del maggiordomo si innalza. Avviene, in pratica un autentico rovesciamento dei ruoli e del potere, che è il motore del comico.
Non ultimo va considerato il modo di affrontare temi caldi, come il sesso. Che è sublimato a puro colpo di fulmine, ma che si fa anch’esso astratto, come lo è nelle maschere teatrali, dalle quali è assente qualsiasi riferimento fisico. Non a caso, Wodehouse è maestro dei ruoli, riflesso anche questo della maschera della commedia, e anche con lui diventano “tipi”, astratti e ripetibili: la pettegola, lo snob…. Infine, la sua arte è tangibile proprio nelle singole “scene”, capaci di suscitare il riso, più ancora che nell’economia dell’intero romanzo, dell’intera storia. Sono le scene, capaci di scatenare la risata, nonostante e forse proprio perché la storia, di per sé, è sempre prevedibile, sin dal suo incipit. Il lettore non ha l’ansia di sapere come andrà a finire, ma si lascia condurre dal suo meccanismo fino al termine del romanzo.
Il mondo di Wodehouse è un never-never-land: un paese dell’irrealtà, un mondo che non esiste e che è destituito di ogni plausibilità. Un mondo in cui vigono leggi proprie, avulse dalla storia e immutabili, dove il sesso si edulcora in idilli amorosi e incontri al limite del parossismo e della vis comica.
Per nostra fortuna, Orwell che difese Wodehouse da false accuse di collaborazionismo, indicò anche uno dei caratteri fondamentali della sua opera: l’assoluta mancanza, anzi indifferenza, scrisse Orwell, non solo verso la storia, ma verso l’attualità e ciò a prova della mancanza di coscienza politica. Un giudizio che scagionava Wodehouse da qualsiasi bandiera politica e lo relegava nell’olimpo degli umoristi. Un umorista non ha il dovere di tenersi aggiornato, diceva Orwell. Un umorista, aggiungo, che regge non solo la ri-lettura, ma la lettura stessa non lascia l’impressione di uno spreco, perché si configura come un’”esperienza”, anche questo indice di una grandezza che si può dire “classica”.